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Lista degli errori: Errore n. 1 Pò invece di po'
Thread poster: Giuseppina Gatta, MA (Hons)
Gaetano Silvestri Campagnano
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L'uso è sempre sovrano Feb 9, 2012

linguandre wrote:

Il discorso dell'uso mi convince poco sinceramente. Innanzitutto sé stesso non è errore (ancora non l'ho trovato da nessuna parte che è errore), qualunque cosa ne dica l'uso: se uno non vuole usare l'accento va bene, ma non si può dire a chi lo usa che sta sbagliando.
Qualche domanda:
-nemmeno sulle forme plurali (maschili e femminili) si mette l'accento?
-qualcuno toglierebbe l'accento su in «Fatti in là»? Perché allora toglierlo in sé stessi/e?


Tornando all'uso: se si continua di questo passo, a forza di prendere per corretto (o quantomeno accettabile) l'uso finiremo per dover scrivere , si (affermazione), te (bevanda), da (verbo dare, III persona singolare), perchè... E si finirà per ritenere corretta la pronuncia chiusa di dotto (nel senso di sapiente), parecchio frequente, invece della corretta /dòtto/.




Mi spiace dissentire di nuovo, ma l'uso, nella lingua, è sempre sovrano, come conferma ogni studioso delle lingue e dei fenomeni linguistici, e come, naturalmente, non possono poi che avvalorare i dizionari e i testi di grammatica. Infatti, come ho già detto prima, è l'uso che fa la regola e non viceversa, e questo è un dato di fatto, oltre che un principio universalmente condiviso.

Inoltre, nel tuo discorso, ora ti contraddici da solo: infatti prima hai iniziato con il propugnare la correttezza di voci fino a ieri considerate scorrette (e spesso tuttora ritenute tali), ma consacrate dall'uso (come "ma però" e "a me mi"), e quindi giustamente ormai riportate come corrette da alcuni dizionari e grammatiche (anche se per il registro molto colloquiale), ed hai proseguito riconoscendo essenzialmente l'importanza dell'uso anche nei tuoi interventi successivi. Ora, però, quando la direzione dell'uso va contro una forma che tu vuoi sostenere, allora la regola fondamentale dell'uso improvvisamente per te non ha più il valore che gli attribuivi: se si conoscono le dinamiche dei fenomeni linguistici e l'importanza fondamentale dell'uso, non si può invocare quest'ultimo solo quando ci fa comodo, ma bisogna soltanto riconoscere, come già detto, che, nelle lingue, l'uso è sempre "la regola delle regole", e null'altro di più.

Tengo inoltre a precisare che, nonostante tu abbia frainteso il mio discorso per due volte di fila, io non ho mai sostenuto che la forma da te propugnata sia scorretta, ma che è giustamente percepita come tale dalla maggior parte dei parlanti, essendo divenuta forma minoritaria sempre in seguito all'uso, che questo possa piacere o no (e personalmente questo a me fa piacere, perché consente di "economizzare" un accento: perché mai aggiungere qualcosa a una lettera quando la forma correttissima e per di più prevalente ci risparmia questa fatica?). E come ho già accennato, la forma meno utilizzata, con il passare del tempo, diventerà sempre più desueta, fino a scomparire del tutto, diventando un arcaismo o un relitto linguistico e, allora sì, un errore vero e proprio, come avviene normalmente in tutte le lingue. Certo, poi non sappiamo quale sia attualmente la direzione vera e propria dell'uso per queste due forme, e può anche darsi che l'uso possa cambiare o stia già cambiando, e che magari, per la regola dell'analogia, sia proprio la forma con l'accento a prevalere, assimilandosi alle forme pronominali "sé" isolate. Tuttavia, anche in questo caso, sarebbe sempre l'uso ad avere l'ultima parola.

Perciò, in base a questa legge imprescindibile dell'uso, persino i casi di forme finora palesemente scorrette, che hai citato come esempio paradossale (come appunto il famoso «po'» che dà il titolo alla discussione, e lo proprio stesso «da» senza accento al posto di «dà» come verbo "dare"), dovrebbero indubitabilmente essere riconosciute come corrette, e registrate come tali da grammatiche e dizionari, qualora, per ipotesi, dovessero affermarsi e diventare prevalenti.

Spesso, infatti, ci si dimentica che tutti i fenomeni di trasformazione delle lingue sono inizialmente percepiti come errori dai parlanti. Ed a questo proposito, un esempio classico, tratto dagli studi di linguistica e filologia romanza, ma divenuto poi universale, è la famosa "Appendix Probi", del III-IV secolo D.C. In questo notissimo testo di grammatica latina del tardo Impero Romano, l'autore cita una serie di forme latine "corrette" seguite da quelle che allora venivano ritenute le forme "errate", e che invece altro non erano che le prime avvisaglie delle trasformazioni del latino classico (già presenti in diverse iscrizioni popolari pompeiane del I secolo D.C.) in quello che conosciamo come il "latino tardo", e che poi hanno dato origine alle attuali forme dell'italiano, oltre che (con le specifiche differenziazioni e azioni di sostrato e superstrato), alle forme delle altre lingue romanze. Nella Appendix Probi si legge, infatti: «"màsculus" non "masclus", "columna" non "colomna", "càlida" non "calda", "frìgida" non "fricda", "àuris" non "oricla", "vìridis" non "virdis"», ecc.). Quindi, tutti quei "non" che allora erano probabilmente considerati degli "obbrobri", sono in realtà, per certi versi i nostri "progenitori" dal punto di vista linguistico, sono cioè i termini e le forme di cui, linguisticamente, siamo "figli" tutti noi parlanti italiani e neolatini, anche in questo XXI secolo.



[Modificato alle 2012-02-09 16:31 GMT]


 
Andrea Russo
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Altro collegamento... Feb 9, 2012

Ho capito che cosa vuoi dire. Anche se a questo punto mi chiedo a che cosa servono le grammatiche e i dizionari... Per vedere se qualcosa è accettabile o no basta vedere l'uso.

Ancora però non hai risposto alle mie domande.


Per chi abbia voglia di leggere un po', qualche ulteriore aggiunta si trova anche qui, con l'opinio
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Ho capito che cosa vuoi dire. Anche se a questo punto mi chiedo a che cosa servono le grammatiche e i dizionari... Per vedere se qualcosa è accettabile o no basta vedere l'uso.

Ancora però non hai risposto alle mie domande.


Per chi abbia voglia di leggere un po', qualche ulteriore aggiunta si trova anche qui, con l'opinione di altri linguisti.





P.S.: non so se ti sei basato sul mio nome, ma ho notato che già due volte hai coniugato tutto al femminile per riferirti a me. Andrea in Italia è nome maschile (e ora che ci penso perché all'estero è femminile dato che è un nome che deriva da una parola greca che vuol dire virile?).
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Gaetano Silvestri Campagnano
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Chiarimenti Feb 9, 2012

linguandre wrote:

Ho capito che cosa vuoi dire. Anche se a questo punto mi chiedo a che cosa servono le grammatiche e i dizionari... Per vedere se qualcosa è accettabile o no basta vedere l'uso.



Nonostante la tua frase iniziale, sembri ancora non capire o glissare continuamente su quanto dico: è stato ripetuto svariate volte che i dizionari e le grammatiche, giustamente, si limitano a riportare quanto è sancito dall'uso. Se non facessero così, sarebbero erronei ed obsoleti, perché riporterebbero forme "cristallizzate" del passato, desuete o non più prevalenti, e cadrebbero così nello stesso errore della Appendix Probi. Ecco perché, essendo la lingua una realtà viva, ed in continua evoluzione, i dizionari e le grammatiche, per poter riflettere sempre il vero uso corrente, devono aggiornarsi il più frequentemente possibile. Lo hai detto anche tu, più volte, che i dizionari riflettono l'uso, quando hai citato gli esempi che volevi avvalorare. Ora, invece, con un comportamento simile, fingi di nuovo di dimenticare questo concetto quando avvalora una tesi contraria alla tua...

linguandre wrote:

Ancora però non hai risposto alle mie domande.



A quali domande ancora dovrei rispondere, se, per cercare di far capire dei concetti che tu stesso hai sostenuto e abbandonato varie volte, a seconda della convenienza, non sto facendo altro che esporre in forma diversa ed approfondire sempre gli stessi argomenti?

linguandre wrote:

P.S.: non so se ti sei basato sul mio nome, ma ho notato che già due volte hai coniugato tutto al femminile per riferirti a me. Andrea in Italia è nome maschile (e ora che ci penso perché all'estero è femminile dato che è un nome che deriva da una parola greca che vuol dire virile?).



Se è così, chiedo venia! Non è stata la seconda parte del nickname a trarmi in inganno, ma probabilmente l'elemento iniziale "lingua", che, essendo femminile, fa generalmente pensare a una persona di sesso femminile.

Posso invece farti qualche domanda io? Visto che ho notato un tuo profilo abbastanza scarno qui in ProZ, e l'indicazione "Student", volevo chiederti se sei davvero uno studente e se hai sostenuto qualche esame di linguistica. Apparentemente, infatti, sembri appassionato di questa materia, dati gli argomenti grammaticali che hai proposto, e che, come dici, ti attirano molto. D'altro canto, però, mi appari più come un autodidatta o comunque un appassionato un po' alle prime armi, visto che sembri cambiare idea ogni momento e ignorare, o voler ignorare i principi linguistici fondamentali, che si riflettono appunto sugli aspetti della grammatica, e che, bene o male, ogni studente dovrebbe conoscere.

Infine, se non sono indiscreto, vorrei chiederti se sei traduttore o comunque se pensi di diventarlo, o se ti sei iscritto a ProZ solo per partecipare alle discussioni sugli argomenti linguistici.



[Modificato alle 2012-02-09 17:05 GMT]


 
Pzit (X)
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Complicazioni Feb 9, 2012

Luca Serianni (tra i massimi studiosi di grammatica italiana) dice in proposito:

"la norma ortografica per la quale il pronome dovrebbe perdere l'accento se seguito da stesso è un'inutile complicazione." ("Italiano", Luca Serianni, Garzanti, serie Garzantine, p. 589)

Ed è davvero facile capire perché sia un'inutile complicazione: perché la norma che regola l'accento nei monosillabi non solo esiste, ma è coerente, conclusiva, semplice e impermeabil
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Luca Serianni (tra i massimi studiosi di grammatica italiana) dice in proposito:

"la norma ortografica per la quale il pronome dovrebbe perdere l'accento se seguito da stesso è un'inutile complicazione." ("Italiano", Luca Serianni, Garzanti, serie Garzantine, p. 589)

Ed è davvero facile capire perché sia un'inutile complicazione: perché la norma che regola l'accento nei monosillabi non solo esiste, ma è coerente, conclusiva, semplice e impermeabile alle eccezioni. Cioè lo era, prima che con l'uso (benedetto uso!!!) ci si inventasse l'inutile eccezione.
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Andrea Russo
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Perfetto Serianni! Feb 9, 2012

Stefano Armanini wrote:

Luca Serianni (tra i massimi studiosi di grammatica italiana) dice in proposito:

"la norma ortografica per la quale il pronome dovrebbe perdere l'accento se seguito da stesso è un'inutile complicazione." ("Italiano", Luca Serianni, Garzanti, serie Garzantine, p. 589)

Ed è davvero facile capire perché sia un'inutile complicazione: perché la norma che regola l'accento nei monosillabi non solo esiste, ma è coerente, conclusiva, semplice e impermeabile alle eccezioni. Cioè lo era, prima che con l'uso (benedetto uso!!!) ci si inventasse l'inutile eccezione.


Non posso che essere d'accordo con te. Grazie per la citazione: non la conoscevo, possiedo solo l'altra edizione della Grammatica di Serianni.


 
Andrea Russo
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Risposte, e ancora sull'Uso Sovrano Feb 9, 2012

Gaetano Silvestri Campagnano wrote:
Posso invece farti qualche domanda io? Visto che ho notato un tuo profilo abbastanza scarno qui in ProZ, e l'indicazione "Student", volevo chiederti se sei davvero uno studente e se hai sostenuto qualche esame di linguistica. Apparentemente, infatti, sembri appassionato di questa materia, dati gli argomenti grammaticali che hai proposto, e che, come dici, ti attirano molto. D'altro canto, però, mi appari più come un autodidatta o comunque un appassionato un po' alle prime armi, visto che sembri cambiare idea ogni momento e ignorare, o voler ignorare i principi linguistici fondamentali, che si riflettono appunto sugli aspetti della grammatica, e che, bene o male, ogni studente dovrebbe conoscere.

Infine, se non sono indiscreto, vorrei chiederti se sei traduttore o comunque se pensi di diventarlo, o se ti sei iscritto a ProZ solo per partecipare alle discussioni sugli argomenti linguistici.


Sí, sono uno studente di un corso di Laurea Magistrale in traduzione (va da sé che mi piacerebbe fare il traduttore). Non so se è necessaria la fotocopia del libretto... Se ho scritto nel profilo che sono studente vuol dire che sono studente. Se per ora ho risposto principalmente a discussioni sulla lingua italiana è perché ancora in ambito traduttivo ho pochissima esperienza. Ho letto molte discussioni, e sto imparando molto da voi piú esperti. Se mentre controllo vecchie discussioni incontro qualcosa di cui posso discutere allora intervengo.
Ora, io ho risposto, e vorrei che tu rispondessi alle domande che ho fatto: io ti chiedo come ti chiami e tu mi rispondi che sono la 10 e 20... Non c'è bisogno che riformuli quello che hai detto finora.
Inoltre, ancora non capisco dove mi sarei contraddetto, cambiando argomento dimostrando di essere un dilettante allo sbaraglio (ci mancava solo che tu mi chiedessi se ho partecipato alla Corrida...). Mi piacerebbe che tu specificassi chiaramente dove ho cambiato idea solo perché mi faceva comodo, il che non penso di averlo fatto.


E comunque, tornando al discorso dell'uso, saranno pure i parlanti che fanno la lingua, sarà anche vero che la lingua è viva e s'evolve di continuo, ma se ci si nasconde dietro il discorso dell'uso si finirà come ho già detto per scrivere : e se verrà accettato questo obbrobrio sarà perché nessuno corregge piú i bambini e gli studenti che lo scrivono. Non ci sarà nessuno che s'interessa delle regole, e quindi s'andrà avanti per inerzia, accettando qualsiasi sciatteria linguistica. Non mi pare un qualcosa di logico (e nell'evoluzione della lingua c'è ordine, c'è sempre un motivo perché la lingua va verso una direzione e non verso un'altra; anche l'Uso Sovrano che continui a invocare ha una sua logica).


 
Manuela Dal Castello
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OT OT OT senza offesa Feb 9, 2012

linguandre wrote:

P.S.: non so se ti sei basato sul mio nome, ma ho notato che già due volte hai coniugato tutto al femminile per riferirti a me. Andrea in Italia è nome maschile (e ora che ci penso perché all'estero è femminile dato che è un nome che deriva da una parola greca che vuol dire virile?).


Scusate se mi intrometto, ma se (comprensibilmente) non si vuole che il proprio sesso / nome / identità vengano fraintesi perché non indicare il proprio nome, anziché usare uno pseudonimo, o ripristinare quell'antico uso di mettere il nome in calce ai propri interventi?

Di solito quando mi arriva un messaggio anonimo nel telefonino, anche da parte di chi ho in rubrica, rispondo con "posso avere l'onore di sapere chi mi scrive?"

Scusate l'ardire....
Manuela


 
Andrea Russo
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Hai completamente ragione! Feb 9, 2012

Manuela Dal Castello wrote:
Scusate se mi intrometto, ma se (comprensibilmente) non si vuole che il proprio sesso / nome / identità vengano fraintesi perché non indicare il proprio nome, anziché usare uno pseudonimo, o ripristinare quell'antico uso di mettere il nome in calce ai propri interventi?
Manuela


È vero, hai completamente ragione. Vedrò di ricordarmelo (a meno che non ci sia un modo per inserire la firma automatica, cosí non ci sarà possibilità d'errore). Peccato che nel mio caso la firma in sé può essere ambigua (comunque non me la sono presa, né me la prendo se qualcuno si confonde, ci mancherebbe).
A ogni modo, t'assicuro che m'è già successo che qualcuno confondesse il sesso, anche se firmo sempre i miei messaggi con tanto di nome e cognome (anche se non sembrerebbe, lo so!).

Grazie mille per il tuo intervento (non so se il tuo scusate ripetuto due volte era ironico: non vedo perché dovresti scusarti...!).

Andrea


 
Manuela Dal Castello
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Perché... Feb 9, 2012

linguandre wrote:

Grazie mille per il tuo intervento (non so se il tuo scusate ripetuto due volte era ironico: non vedo perché dovresti scusarti...!).

Andrea


Non ironico, ma solo perché in un forum anziché parlando di persona può essere difficile far capire il tono che si sta usando, che nel mio caso non voleva assolutamente essere accusatorio o cattivo o sarcastico... ma semplicemente una domanda.
Buonanotte!
Manuela


 
Tom in London
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Non occorre Feb 10, 2012

LuciaC wrote:

Toglietemi una curiosità: ormai tutti dicono

Ci tengo a dire/sottolineare che...

Secondo me il CI è pleonastico e si dovrebbe dire

Tengo a dire che...

oppure
Tengo molto a questo libro/Ci tengo molto.

Sbaglio?




Basta dirlo. Non occorre tenerci


 
Pzit (X)
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L'uso non dovrebbe contemplare sciatteria Feb 10, 2012

linguandre wrote:

ma se ci si nasconde dietro il discorso dell'uso si finirà come ho già detto per scrivere : e se verrà accettato questo obbrobrio sarà perché nessuno corregge piú i bambini e gli studenti che lo scrivono. Non ci sarà nessuno che s'interessa delle regole, e quindi s'andrà avanti per inerzia, accettando qualsiasi sciatteria linguistica. Non mi pare un qualcosa di logico (e nell'evoluzione della lingua c'è ordine, c'è sempre un motivo perché la lingua va verso una direzione e non verso un'altra; anche l'Uso Sovrano che continui a invocare ha una sua logica).



Concordo, i tuoi ragionamenti sono solidi e sensati e penso che anche la stragrande maggioranza degli studiosi ti darà ragione. Io penso che:

- l'uso della lingua è come il traffico sulle strade. È composto da utenti che seguono le indicazioni stradali, a volte infrangono le norme, ma non possono mai fare totalmente quello che vogliono: andare contromano provoca disastri; tagliare la strada provoca improperi, ecc. ecc. In questo esempio, i fautori dell'Uso come controllore totale del destino della lingua sono come i proprietari di grossi SUV: i quali, per il fatto che ora guidano il SUV, hanno bisogno per forza di parcheggi più grandi, strade più larghe e meno veicoli lenti e vecchi in circolazione, perché li intralciano...

- l'uso della lingua modifica necessariamente la lingua nel tempo. Ma non è sovrano nel senso che qualsiasi sciatteria frutto di pigrizia possa essere accettata. L'impoverimento di una lingua è causato da sciatteria, dal non rispetto delle regole, dall'ingresso di contraddizioni, da finte semplificazioni e da giustificazioni di carattere tecnico (es. finiremo con scrivere perché ce lo suggerisce il cellulare). Ma cosa scriveremo nelle grammatiche dei prossimi anni? Che "pò" fa eccezione senza motivo? Della serie la regola c'è ma la gente fa come le pare quindi fate come vi pare? Non è serio e non è accettabile.

Quindi, se da un lato usando la lingua modificheremo la lingua, è solo usandola bene (o comunque non maltrattandola) che potremo sperare di mantenerla viva ed efficace.
Stefano


 
Giuseppina Gatta, MA (Hons)
Giuseppina Gatta, MA (Hons)
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L'uso... Feb 10, 2012

...premesso che non ho letto tutti gli interventi per mancanza di tempo, ma se fosse davvero l'uso a dettare l'ortografia di una lingua a questo punto dovrei rassegnarmi, quando lavoro alle revisioni, a gente che traduce "Yes" con "Si", perché abituata a tale uso dalle chat?!? Mi sento sempre più bronto(lo)saura, ma non lo farò mai...

 
Andrea Russo
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Siamo d'accordo Feb 10, 2012

Giuseppina Gatta, MA (Hons) wrote:

...premesso che non ho letto tutti gli interventi per mancanza di tempo, ma se fosse davvero l'uso a dettare l'ortografia di una lingua a questo punto dovrei rassegnarmi, quando lavoro alle revisioni, a gente che traduce "Yes" con "Si", perché abituata a tale uso dalle chat?!? Mi sento sempre più bronto(lo)saura, ma non lo farò mai...


Non posso che essere d'accordo. Mi fa piacere leggere interventi come il tuo. Se leggerai gl'interventi (un po' lunghini...) vedrai che la pensiamo in maniera uguale su questo punto.
Comunque mi riesce difficile credere che si possa sorvolare cosí sugli accenti. Un refuso ci può stare, ma se succede piú volte è inaccettabile (per tutti ma a maggior ragione per i traduttori).


 
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Gaetano Silvestri Campagnano
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Ultimo chiarimento sul concetto di uso nella lingua: l'uso comune, consolidato e codificato Feb 11, 2012

Come accennato nel post precedente, scrivo qui un nuovo post per cercare di chiarire per l'ultima volta il concetto di uso linguistico.

(Nel frattempo, solo in questo momento, nell'inserire il post, leggo l'intervento di Giuseppina, che ha aperto questa discussione quasi cinque anni fa, e che saluto. Sono sicuro che, nel leggere questo post, comprenderà e chiarirà l'equivoco che, nonostante i miei interventi precedenti, si è determinato sul concetto di uso in linguistica. Forse t
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Come accennato nel post precedente, scrivo qui un nuovo post per cercare di chiarire per l'ultima volta il concetto di uso linguistico.

(Nel frattempo, solo in questo momento, nell'inserire il post, leggo l'intervento di Giuseppina, che ha aperto questa discussione quasi cinque anni fa, e che saluto. Sono sicuro che, nel leggere questo post, comprenderà e chiarirà l'equivoco che, nonostante i miei interventi precedenti, si è determinato sul concetto di uso in linguistica. Forse tale equivoco è anche alla base dei fraintendimenti manifestati degli altri due giovani interlocutori. Anzi, per spiegare meglio questo concetto di "uso", oltre ad aggiungere una seconda parte al titolo di questo post, ho cercato di mettere in risalto graficamente quelli che ritengo i passaggi chiave, che secondo me consentono di chiarire l'equivoco nato sulla definizione di uso linguistico.)

Riguardo all'attuale scambio di messaggi, premetto che, anche a parte i già accennati fraintendimenti e mancanza di comunicazione reale (un vero paradosso, quando si discute di linguistica, ma i colleghi che leggono ne valuteranno le cause), entrambi i miei giovani interlocutori, pur dimostrando passione per certe tematiche, mi hanno finora dato l'impressione di avere conoscenze di fondo non molto ampie nel campo della linguistica. Pur citando, infatti, diversi aspetti della grammatica e del linguaggio, danno l'impressione non solo di non aver mai sostenuto un esame di linguistica/glottologia, ma di non conoscere neppure determinati principi linguistici anche minimi, come è appunto, in primis, la norma basilare dell'uso.

Se si capisce la dinamica della lingua, non si può fare a meno di riconoscere la sovranità assoluta dell'uso (qualsiasi ironia si possa fare in proposito, con iniziali maiuscole e simili...): non credo che occorra invitarvi a chiedere a qualsiasi docente di glottologia se conferma o meno questa realtà ovvia della lingua: basterebbe chiedere appunto a chiunque sappia di queste dinamiche almeno un po', anche al di fuori di questo forum. E peraltro, qui in ProZ, qualsiasi collega con un minimo di esperienza vi confermerebbe quanto vi dico.

Il Serianni potrà essere anche il più grande studioso della grammatica italiana, ma, se è un vero linguista, ammetterà di essere in errore su questa sua affermazione relativa alla regola del "se stesso". Infatti, non può essere certo lui a dettare quale strada possa prendere l'uso di una forma linguistica o grammaticale, soprattutto quando tale forma è da tempo consacrata da un uso ben consolidato. Mi meraviglio perciò del Serianni, che queste cose dovrebbe capirle benissimo, ma sembra incredibile che, nonostante ciò, parli addirittura di una norma consolidata come di una "inutile complicazione" (anzi, se mai, è una semplificazione, perché -altra ripetizione a cui vengo costretto- ci permette di "risparmiare" un accento...). Come linguista, infatti, il Serianni dovrebbe sapere benissimo che non si può mai parlare di "complicazione" riguardo a una forma consacrata dall'uso, perché ciò non ha proprio alcun senso. Infatti non solo, piaccia o no, l'uso è veramente sovrano (anche senza iniziale maiuscola...), ma, proprio per questo, le sue scelte sono sempre completamente neutre, quindi né semplici né complicate, né belle ne brutte. Perciò non sono scelte soggette a giudizi, ma vanno semplicemente accettate come sono, allo stesso modo in cui vengono sottoscritte dai dizionari e dalle grammatiche.

Inoltre (detto ovviamente senza presunzione), chi conosce almeno un po' di linguistica saprà che, come diceva il grande Ferdinand de Saussure, padre della linguistica moderna, i principi su cui si basa la conformazione di una lingua sono completamente arbitrari, perché arbitrario è soprattutto il rapporto tra ogni termine, inteso come sequenza di suoni, e il relativo concetto, cioè tra "significante" e "significato" ("signifiant" e "signifié", per usare i due termini originali cari a Saussure). Cioè, non c'è un motivo vero e proprio per cui si usa un termine al posto di un altro o per cui un concetto è indicato da un termine anziché da un altro. Lo studioso ginevrino paragonava infatti la lingua a una partita a scacchi, in cui non importa che i pezzi abbiano una forma anziché un'altra, ma l'importante è che svolgano la loro funzione, tant'è vero che un pezzo può essere sostituito con qualsiasi altro oggetto, purché continui ad essere utilizzato allo stesso modo. Ed è proprio la **funzione** la parola chiave della teoria linguistica di Saussure. Perciò, non vi dico quanto riderebbe non solo Saussure, se fosse tra noi, nel leggere il commento di Serianni sulla forma "se stesso", ma anche, ad esempio, Tullio De Mauro, lui sì, il più grande glottologo italiano vivente.

E non c'è bisogno neppure di scomodare Saussure o De Mauro, né gli altri grandi glottologi per sapere che l'uso, in ogni lingua, non può mai essere soggiogato, né incanalato in alcun modo da singoli individui o ristretti gruppi di persone, che rimangono sempre una minoranza rispetto alla massa dei parlanti. Infatti, come testimonia la storia, gran parte degli interventi esterni effettuati da politici o studiosi sull'uso di determinati vocaboli anziché di altri, sono ben presto falliti miseramente, e sono stati bocciati senza appello dall'uso vivo della lingua. Si veda ad esempio l'imposizione di termini italiani al posto di tutti i prestiti stranieri, anche consolidati, oltre che l'uso del pronome di cortesia "Voi" al posto del "Lei" (considerato "borghese e spagnolesco"), che un determinato regime tentò invano di attuare nel nostro paese durante il noto "ventennio" tra le due guerre mondiali. Ma ancor prima, la rivoluzione francese aveva tentato invano di cambiare persino i nomi ai mesi dell'anno. E, naturalmente, mi si costringe per l'ennesima volta a citare l'Appendix Probi e l'evoluzione del latino verso l'italiano e le altre lingue romanze. E cioè, non si potrà mai fare a meno di ammettere che oggi, anziché il latino di Cicerone, si parla l'italiano, proprio perché si sono affermate quelle forme latine considerate "errate" dall'autore di quel testo di grammatica (come allo stesso modo si parla francese, spagnolo, portoghese, catalano, rumeno, sardo, ladino e franco-provenzale, almeno finché queste ultime tre sopravviveranno, e non scompariranno dall'uso corrente, come il provenzale). Perciò, davanti all'uso, non c'è regola né testo di grammatica che tenga, ma, se mai, saranno questi ultimi a doversi modificare, uniformandosi all'uso.

E sia ben chiaro, per "uso" non intendo un uso individuale, innovativo e casuale che ognuno di noi potrebbe attuare in qualsiasi momento, come se ognuno potesse creare, quando e come più gli piace, un termine o una forma linguistica che possano diventare "canonici". E naturalmente, allo stesso modo, non possono assurgere a regola i termini specifici o gergali, spesso di tipo affettivo, confidenziale o scherzoso, coniati spesso da un nucleo familiare o da qualsiasi altro ristretto gruppo sociale (comitiva di amici, ambiente di lavoro, ecc.): quando ciò avviene, si tratta di casi rarissimi, in cui un termine ha un successo talmente grande da conquistare il linguaggio comune (un caso a parte sono invece i cosiddetti "linguaggi settoriali", perfettamente canonici ed anzi "standardizzati", che riguardano intere categorie di persone e campi delle attività umane all'interno di ciascuna comunità linguistica, e che attengono alla sfera della terminologia tecnica).

Quando, in linguistica, si parla di "uso" ci si riferisce all'uso prevalente e consolidato, un uso cioè che diventa abituale e si estende alla stragrande maggioranza dei parlanti. Solo quando una nuova forma viene adottata da una percentuale altissima di parlanti, può diventare veramente corretta, "spodestando" le forme precedenti sancite dai dizionari e dalle grammatiche. Questi ultimi, allora, non dovranno che prendere atto dell'innovazione e registrare la nuova forma come corretta. Perciò, proprio come è avvenuto per "ma però" e "a me mi piace" citati da Andrea come consacrati dall'uso e divenuti forme corrette, paradossalmente (come pure sono costretto a ripetere), anche "un pò" anziché "un po' " e "da" al posto di "dà" come verbo dare, nonché altre forme simili citate, diverrebbero corrette se venissero utilizzate da gran parte di chi scrive.

Naturalmente, in quest'ultimo caso si sta parlando di aspetti ortografici, che, a differenza delle forme linguistiche e grammaticali vere e proprie, sono legati alla scrittura. E l'evoluzione della scrittura è sempre molto più lenta rispetto a quella della lingua, per il grande prestigio e il forte influsso che la scrittura esercita in quanto elemento di "tradizione". E lo constatiamo negli esempi lampanti dell'inglese e del francese, dove in moltissimi casi, a causa della complessa evoluzione fonetica seguita da queste lingue, vediamo un'estrema divergenza tra la forma fonica e quella grafica delle parole. E non uso il termine "pronuncia" perché anche quest'ultimo è indice di un approccio sbagliato ai fenomeni linguistici, basato cioè sulla scrittura, in quanto presuppone a torto la preesistenza (e preminenza) della scrittura rispetto alla lingua, mentre in realtà è l'esatto contrario. Anche questo approccio è infatti un risultato del condizionamento psicologico della scrittura, dettato dal suo suddetto fortissimo prestigio "tradizionale" (che ci fa dire spesso "come si pronuncia" una parola anziché "come si articola", in quanto presupponiamo inconsciamente che si parli sempre leggendo, come se le parole esistessero a priori in forma scritta: in realtà non sono le parole scritte ad essere "pronunciate", ma, se mai, sono le parole "tout court", cioè le parole "parlate", ad essere scritte). Quindi, perché si affermi una nuova forma grafica (come l'uso di una lettera o di un gruppo di lettere al posto di altri, oppure, appunto, l'aggiunta, l'eliminazione o la modifica di un accento), è necessario un tempo notevolmente più lungo rispetto a quello che serve a una forma linguistica vera e propria (cioè una parola, un'espressione o un tipo di costruzione) per prendere il sopravvento su quelle precedenti.

Perciò, il principio dell'imprescindibilità dell'uso potrà non piacere, ma è fondamentale, e ciò è riconosciuto da chiunque sappia almeno a grandi linee come funziona una lingua. Neppure io sono molto contento di diverse scelte operate attualmente dall'uso nella nostra lingua e regolarmente "ratificate" dai dizionari. Tuttavia, riconosco che, in questi casi, non si può fare nulla, ma solo accettare il responso irrefutabile dell'uso. Vedi, ad esempio, proprio le forme "a me mi piace" e "ma però", citate all'inizio da Andrea, che io non userei neppure sotto tortura, ma che, come il mio giovane futuro collega ha osservato, sono entrate nell'uso comune almeno nel linguaggio estremamente colloquiale. E vedi, soprattutto, la proliferazione incredibile di termini inglesi di calco e prestito nella lingua italiana, anche in modo completamente gratuito, quando esistono fior di traducenti ed equivalenti italiani (questo sì, un vero punto dolente, oggetto di molti filoni di discussione in questo forum, anche attuali o, appunto "thread", termine anche questo ormai consolidato in ProZ ). Chi frequenta, in ProZ, l'area terminologica, sa quanto io stigmatizzi questa situazione, quando spesso arrivano domande su termini inglesi che si tende a lasciare appunto immutati, nonostante la grande abbondanza di ottimi equivalenti italiani. Ma gli stessi colleghi sanno che, anche in quei casi, non posso fare a meno di ammettere che, qualora anche i termini più "discutibili" diventassero di uso comune e consolidato, non ci sarebbe proprio nulla da fare, ed anche noi traduttori non potremmo che prenderne atto, come già facciamo in molti altri casi.

E, su questo aspetto, si potrebbero citare esempi a iosa, anche al di là dei termini puramente tecnici che spesso discutiamo in questo sito, nell'area terminologica "KudoZ". A parte il caso ormai abbastanza datato e pienamente consolidato di "intrigante" con il significato di "attraente" e "accattivante" anziché "relativo a chi fa intrighi" o "impiccione" (accezioni originarie che, sebbene siano ancora riportate dai dizionari accanto a quella nuova, stanno ormai scomparendo), basti pensare a "occorrenza" nel significato di presenza di un fenomeno in una situazione o di termine in un testo, anziché nel significato originario di "necessità", oppure a "consistente" nel significato di "coerente" anziché di "solido", "compatto". Si tratta cioè di due calchi semantici che ormai sono entrati a pieno titolo nei dizionari italiani. Vi assicuro che, anziché utilizzarli, preferirei la fucilazione, ma nonostante ciò non posso negare che siano entrate nell'uso, essendo presenti persino nei dizionari più "titolati" come lo Zingarelli...

E, considerando, in particolare, i prestiti, cioè i termini presi letteralmente "di peso" dall'inglese e lasciati non tradotti, anche questo versante è diventato ormai sconfinato e sta allargandosi sempre più. E ciò avviene non solo nei linguaggi settoriali, ma anche, spesso attraverso questi ultimi, nello stesso registro del linguaggio comune. Ed è anche un campo che non finisce mai di riservare sorprese: basti pensare a un termine che in questi giorni è di drammatica attualità, come "blizzard". Dopo aver sentito ultimamente menzionare questo vocabolo varie volte, sia in radio che in televisione, credevo che fosse il tipico anglicismo "indiscriminato" come ce ne sono ormai sempre di più ai giorni nostri (anche se, probabilmente, molti colleghi si meraviglieranno di questa mia lacuna, magari conoscendo già da tempo la cosiddetta "italianità acquisita" di questa parola). Ebbene, incuriosito dalla frequenza con cui il termine veniva ripetuto, ed avendolo sentito menzionare persino ai meteorologi, vado a consultare lo Zingarelli e scopro che il dizionario lo riporta eccome, e che si tratta perciò di una voce entrata a pieno titolo nella lingua italiana (il dizionario ne annota l'introduzione nell'italiano persino al 1899: sarà probabilmente un termine diffusosi tramite il linguaggio settoriale della meteorologia).

Quindi, tutto ciò testimonia che non si può fare nulla contro l'uso comune delle forme linguistiche, e che, al contrario, un dizionario e una grammatica sono veramente precisi quanto più sono aggiornati riguardo all'uso comune e corrente di una determinata lingua.

Il meccanismo dell'uso è, per certi versi, simile a quello della democrazia: se una parola si afferma è perché viene adottata dalla maggior parte dei componenti di una comunità linguistica. Quindi, negare o contrastare l'uso linguistico è, in un certo senso, come voler andare contro la volontà popolare.

Certo, ciò non significa che si debba restare sempre impassibili ed inerti davanti a qualsiasi fenomeno linguistico, soprattutto se si pensa alla suddetta progressiva "anglicizzazione" dell'italiano... Tuttavia, in questo caso, la reazione non deve essere certo basata sulla costrizione e su una innaturale imposizione "dall'alto", come avvenne nel già accennato "ventennio" del secolo scorso, quando si volle imporre l'autarchia anche sul piano linguistico. Come sappiamo, infatti, i risultati di quel tentativo furono fallimentari (tra i pochissimi successi in questo senso, si possono registrare i termini "calcio" per "football" e "pallacanestro" per "basket", anche se in quest'ultimo caso il termine inglese è ancora ampiamente utilizzato...)

Esistono, certo, anche oggi, paesi che reagiscono con maggiore decisione al fenomeno dell'anglicizzazione, come avviene sicuramente per la Francia. Quest'ultima ha da tempo creato persino un comitato per la salvaguardia della lingua francese, che vigila sull'eccessiva penetrazione di calchi e prestiti dall'inglese. Confesso di avere ammirato spesso questo atteggiamento dei francesi, soprattutto rispetto a quello, diametralmente opposto, di noi italiani, che, invece, sembriamo trasformare sempre più la nostra lingua in qualcosa di simile a una varietà dell'inglese... Tuttavia, come già detto, situazioni del genere non verranno certo risolte con interventi artificiali e costrittivi da parte di istituzioni politiche e culturali, ma, appunto, solo dal basso, secondo lo stesso criterio "democratico" dell'uso che regola l'evoluzione della lingua. E se, in Francia, il suddetto comitato di salvaguardia sembra finora avere avuto successo, non è certo per la sua azione in sé, ma perché ha trovato una piena approvazione nella mentalità linguistica dei francesi (attualmente, appunto, così diversa dalla nostra), limitandosi a favorirla e orientarla nel modo previsto. Quindi, credo che, anche in assenza di questo comitato, i francesi avrebbero resistito ugualmente in modo adeguato alla cosiddetta "invasione" della terminologia inglese (che, naturalmente, raggiunge la Francia e l'Europa continentale molto più da oltreoceano che da oltremanica). Basti pensare all'esempio lampante della terminologia informatica, in cui i francesi, a differenza di noi italiani, che non traduciamo praticamente nulla, chiamano il computer "ordinateur", l'hardware "materiel", il software "logiciel" e il mouse "souris" (vocabolo, questo, peraltro tradotto in quasi tutte le lingue), e, pur utilizzando il termine ormai universale "e-mail", lo sostituiscono spesso con il sinonimo "courriel", una creazione originalissima, frutto della contrazione di "courrier électronique".

Si tratta, in conclusione, di un diverso atteggiamento culturale, ed è quindi questo il nocciolo della questione... Infatti, come sappiamo, i fenomeni linguistici sono il riflesso diretto dei fenomeni culturali, dato che lingua e cultura sono due facce della stessa medaglia. Perciò, l'unico modo per tentare di "correggere" una tendenza linguistica senza voler contrastare l'uso e "fare violenza" a una lingua è cercare di modificare la cultura. Anche questo, naturalmente, deve avvenire dal basso, in modo totalmente spontaneo, cercando, ciascuno di noi, di mutare il proprio modo di rapportarsi agli influssi culturali - e quindi anche linguistici - provenienti da oltre confine. E ciò non significa essere totalmente "autarchici" al punto da rifiutare ogni tipo di influsso o tendenza non nostrani, ma consiste semplicemente nel rispettare, oltre alla lingua e alla cultura di altri popoli, anche quelle proprie. La scuola, naturalmente, dovrebbe favorire tale atteggiamento, insegnando, finché è possibile, questo giusto rispetto. Naturalmente, però, senza cadere nell'eccesso opposto dell'imposizione, che ci riporterebbe ai suddetti interventi "istituzionali" estremamente artificiali e controproducenti. Occorre cioè trovare un giusto equilibrio fra "interno" ed "esterno", simile appunto a quello che caratterizza l'atteggiamento della Francia e, in gran parte, anche quello di altri paesi che ci circondano, come ad esempio la Spagna e la Germania.

Purtroppo, non nego di essere un po' scettico che ciò possa avvenire, almeno in tempi brevi, nel nostro paese, ma l'importante è che ognuno prenda coscienza della situazione e l'affronti con il suddetto atteggiamento positivo. Io, nel mio piccolo, cerco di fare la mia parte sia come parlante che come traduttore, utilizzando calchi e prestiti solo quando non esiste in italiano un equivalente preciso che non sia un lunghissimo e contorto giro di parole, e quando si tratta di termini ampiamente e inequivocabilmente consolidati dall'uso, soprattutto da lungo tempo (per quanto, sul versante della traduzione, sia anche vero che occorre sempre confrontarsi con l'orientamento del cliente...).

Ora, perciò, spero di essere stato abbastanza esaustivo sugli argomenti in questione, e di non aver lasciato adito a ulteriori dubbi di sorta.

Spero perciò vivamente che Andrea e Stefano, ai quali auguro la miglior fortuna nello studio e/o nel lavoro, abbiano capito in gran parte cosa intendevo dire, e che, se desiderano continuare il filone, aprano nuovi spunti di discussione relativi ad altri argomenti. In tal caso sarò ben lieto di dare il mio modesto contributo.


[Modificato alle 2012-02-11 15:20 GMT]
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